Il simbolo della Repubblica Veneta nelle province del Bellunese, Feltrino e Cadore
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L’espressione “San Marco in forma de Lion” definisce molto bene il leone marciano che è qualcosa di più dell’emblema di Venezia e della sua Repubblica. Che tale lo sia, o meglio lo sia diventato attraverso i secoli, lo dimostra l’affezione persino ossessiva verso di esso, manifestata non solo dagli abitanti di Venezia e del Dogado, ma anche dai sudditi di Oltremare e di Terraferma, i quali avevano finito per identificarsi con l’entità politico-culturale in esso figurativamente espressa con tanta efficacia. Questa affezione per il leone marciano, il quale iconograficamente si differenzia nei due fondamentali moduli di andante e di in moleca (cioè a forma di granchio), in poche parti dello Stato Veneto fu così sentita come nelle tre montane «provincie» – così erano chiamati i tredici territori dello Stato da Terra – del Bellunese, Feltrino e Cadore. Di tale patrimonio artistico e storico Alberto Rizzi, il maggiore conoscitore dell’argomento, offre qui un’ulteriore visuale nella quale non mancano interessanti novità.
Genesi
La felice e fortunata espressione «San Marco in forma de Lion», abbreviata per metonimia in «San Marco» o «Sammarco» o più intimamente «Marco» e «Marcheto», è inscindibilmente connessa con Venezia e la sua Repubblica. Ma il trinomio Leone-San Marco-Venezia è la risultante di un lunghissimo processo temporale e semantico. Il punto di partenza è la visione avuta da Ezechiele nel 593 a.C. allorché era deportato in Babilonia. In quell’anno, al centro di una gran nube apparve al profeta «la sagoma di quattro esseri viventi: questo è il loro aspetto: avevano sembianza umana, ciascuno con quattro fattezze e quattro ali […]. Quanto alla somiglianza dei loro aspetti, tutti e quattro avevano fattezze umane, fattezze di leone alla loro destra, fattezze di toro alla loro sinistra e, ognuno dei quattro, fattezze di aquila». Verosimilmente questa descrizione è ispirata ai kâribu, i cherubini assiro-babilonesi, vale a dire i leoni e i tori alati con testa umana collocati all’ingresso dei palazzi in funzione apotropaica. Una simile apparizione è descritta nell’Apocalisse di San Giovanni Evangelista, compilata poco prima dell’anno 100 nell’isola egea di Patmos. Fulcro della raffigurazione è il trono di Dio circondato da ventiquattro vegliardi «e in mezzo al trono e attorno ad esso quattro viventi colmi di occhi dinanzi e dietro. Il primo vivente è simile a un leone, il secondo ad un vitello, il terzo ha la faccia d’uomo, il quarto assomiglia ad un’aquila in volo». Questi esseri apocalittici hanno il nome greco di zodia o tetramorfo. Ci vorrà un secolo perché nel 180 circa Sant’Ireneo, vescovo di Lione, nel suo Adversus haereses vedesse in questi quattro esseri mostruosi i simboli degli evangelisti, facendo coincidere il leone con Giovanni, il vitello con Luca, l’uomo con Matteo e l’aquila con Marco. Le identificazioni di Sant’Ireneo sono quindi accettate attorno all’anno 300 da Vittorino di Pettau nel suo Commento all’Apocalisse, nonché da Sant’Ambrogio nel Commento al Vangelo di San Luca. Era morto da solo un anno il grande vescovo di Milano, quando nel 398 San Girolamo, nel Commento a Matteo, riprendendo il riconoscimento degli evangelisti negli zodia, attribuiva l’uomo a Matteo, il leone a Marco, il vitello, che poi iconograficamente si trasformerà in toro o bue, a Luca e l’aquila a Giovanni. L’interpretazione geronimiana, per la quale la fiera va identificata con Marco, nel cui vangelo «vox leonis in heremo rugientis auditur», pur non ricevendo all’immediato l’unanimità dei consensi – è il caso di Sant’Agostino – doveva col tempo affermarsi e stabilizzarsi nell’area cristiano-latina. La prima documentazione dei simboli degli evangelisti è solitamente ritenuta quella musiva dell’impiastricciato catino absidale della Basilica di S. Pudenziana a Roma, la cui valutazione cronologica più corrente è tra il 384 e il 398. Qui da uno strato di nubi cromaticamente variegato emergono le mezze figure degli zodia, sennonché, per la mancanza di scritte esegetiche, non si ha la certezza dell’identificazione dei rispettivi evangelisti, il che vale anche per i medesimi soggetti ravennati al Mausoleo di Galla Placidia e a S. Apollinare in Classe (in questa basilica va pure notato che i simboli degli evangelisti sorreggono i rispettivi volumi, similmente che nei precedenti ma rifatti mosaici romani di S. Paolo fuori Mura). Ma, sempre restando a Ravenna, a S. Vitale l’immagine di Marco è sormontata da un possente leone a figura intera per il quale, pur essendo esso senza ali (cioè aptero) e libro, non dovrebbero sussistere ragionevoli motivi per metterne in dubbio l’identità simbolica. Passando ora al binomio San Marco-Venezia, notissima è la “patriottica” leggenda, codificata alla metà del Trecento nella cronaca del doge Andrea Dandolo – ma riguardo alla presenza del santo ad Aquileia essa affonda le radici nel VI secolo – secondo la quale all’evangelista, in sosta nella laguna veneta mentre si recava da Aquileia a Roma, apparve in sogno un angelo dicendogli «Pax tibi Marce evangelista meus, hic requiescet corpus tuum» (Pace a te Marco mio evangelista, qui riposerà il tuo corpo). È questa la praedestinatio premessa ideologica alla translatio del corpo del santo da Alessandria, verificatasi l’anno 828 ad opera di mercanti lagunari tra i quali la tradizione ricorda Bono da Malamocco e Rustico da Torcello. Col possesso delle presunte spoglie dell’evangelista e la conseguente edificazione del tempio a lui dedicato, il centro religioso del Dogado, cioè quella fascia costiera giuridicamente bizantina stendentesi «a Grado usque ad Caput Aggeris [Cavarzere]», si spostava de facto a Rialto, embrione della futura città di Venezia, anche se a Grado rimarrà pur sempre la sede, prima effettiva poi solo nominale, del “legittimo” patriarca, il quale, rispetto a quello “continentale” di Aquileia, si trovava press’a poco come oggi Taiwan nei confronti della Cina Popolare. Pur assurgendo a primo protettore di Venezia, declassando il problematico greco Teodoro, il ruolo di San Marco divenne sempre più politico man mano che il Ducato (o Dogado) si affrancava gradualmente dalla dipendenza dall’Impero d’Oriente, pervenendo quindi ad una completa indipendenza, al punto tale da giungere, colla conquista crociata di Costantinopoli nel 1204, ad un radicale rovesciamento di rapporti politici (ma non culturali) con l’avita capitale. San Marco nel frattempo, significando agli occhi dei suoi protetti lagunari la specificità veneziana e la loro aspirazione a sottrarsi alle sfere imperiali, tanto bizantina che carolingia, era assurto a Dominus («Landesherr» scrive lo Schramm e «sovrano astratto» Rudt de Collenberg) del Ducato, del cui potere il doge era sì investito ma come «socius ad vitam inter pares», con tutte le limitazioni che ne conseguivano. L’identificazione della Patria col Santo è la causa primaria dell’affermazione figurativa del metonimico leone alato, quale personificazione stessa della Repubblica Veneta. Naturalmente ora emerge un fondamentale interrogativo: quando «San Marco in forma de Lion» divenne emblema precipuamente politico? È consuetudine far iniziare la serie dei leoni politici veneziani con il segno tabellionale del notaio e giudice Viviano, riscontrabile più volte con piccole varianti in un codice pergamenaceo all’Archivio di Stato di Venezia databile al 1208 nel quale sono trascritti i Pacta tra Venezia e varie città dell’Istria e della Dalmazia. Si tratta di un’immagine prettamente romanica, dove la mezza figura di un alato leone appare di profilo, con grandi fauci aperte, appoggiando le branche sui capilettera. Pur non essendo certo casuale, tale presenza leonina non si può però ancora definire come un vero e proprio simbolo del Comune Veneciarum, avendone comunque il valore di antefatto, una sorta di pitecantropo marciano. Come supposto indiretto incunabolo politico marciano va pure espunto un nimbato leone rampante, caricato in uno scudo sagomato relativo al doge Marino Morosini (1249-1253), quale compare in un seicentesco “telero” di Jean Leclerc al Palazzo Ducale raffigurante Il doge Enrico Dandolo e i capitani crociati giurano fedeltà ai patti. Quanto ad altra identificazione del primissimo emblema di Venezia in un rilievo trecentesco al museo di Capodistria (Semi, 1996) non è il caso di soffermarsi avendone in altra sede dimostrato l’infondatezza. Se ne accenna solamente perché a suo tempo vi è stato dato largo spazio nella stampa quotidiana. È negli anni Sessanta del Duecento che il leone marciano si affaccia alla ribalta quale simbolo di Venezia e della sua Repubblica. Documenti fondamentali sono sei piccole figurazioni entro clipei facenti parte di due bronzee misure di capacità datate 1262 e 1263 conservate all’Archivio di Stato di Venezia. I leoni, andanti a destra, sono di una tipologia che si stabilizzerà iconograficamente solo nel secolo successivo. Sono nimbati con muso frontale, ali divergenti, di cui quella in primo piano tangente la coda ad S rovesciata, e tengono tra le zampe anteriori il libro chiuso inclinato, che non è appoggiato, anche se per poco, ad un accennato ripiano. Si tratta ancora di figure in equilibrio instabile, senza quella solidità fisica e ideologica che assumeranno col tempo. Questo leone politico – i rilievi sono tutti uguali con un leggero scarto dimensionale tra i due secchielli – è diversissimo da quello, all’incirca coevo ma prettamente religioso, infisso cogli altri simboli degli evangelisti nel portale marciano di S. Alipio. Tale diversità è poi anche accentuata per il fatto che i tre tondi evangelici degli animali sono ab antiquo infissi più o meno ruotati, cosa che non meraviglia dato che la si riscontra spesso anche nelle patere zoomorfe veneto-bizantine, ma che comunque va segnalata anche ai fini di una corretta lettura iconografica. Il leone di S. Alipio presenta un muso nettamente profilato, il che nei leoni politici è contrario, come vedremo, alla norma ed ha, a differenza di quelli, una cortissima coda sollevata. Ma l’anomalia maggiore rispetto agli statuali emblemi leonini è costituita dalle ali che sono senza giuntura e come appiccicate al fondo, scendendo tutt’e due fino alla pianta della zampa posteriore in secondo piano. Il carattere religioso del rilievo è inoltre sottolineato dalla scritta sul libro-evangeliario «VOX / CLAM/ANTIS AIS H/NC VT // LEO M/ARCE VOCA/RIS AI/VNN [sic]» interpretata come «Tu dici “la voce di colui che urla” [Marco 1,3] e perciò sei chiamato Leone, o Marco». Se i leoncini bronzei del veneziano Archivio di Stato, pur nelle loro ridotte dimensioni (da 7 a 7,5 cm di diametro) sono iconograficamente ben esaminabili, poco più che intuibili sono invece i microscopici leoni “in moleca”, cioè a forma di granchio, che, a partire dal 1261, un anno o due dunque prima di quelli, compaiono nelle bolle dogali sul vessillo che San Marco consegna al doge Ranieri Zeno delegandogli il potere. Poco leggibili ma inequivocabili per la loro struttura rotondeggiante con alucce e nimbo, il che li fa assomigliare a certi parassiti di cattiva nomea, essi costituiscono comunque un’altra prova irrefutabile della politicizzazione del leone marciano, nel mentre in Dalmazia due fonti scritte menzionano poco prima a Veglia un leone lapideo del 1250 e a Curzola l’impiego nel 1256 di «vexillum unum sancti Marci». Dello stesso torno di tempo è un leone marciano probabilmente politico, se non semanticamente “anfotero”, recentemente comparso durante i lavori nella chie sa della Paraschevè (Paraskevì), già cattedrale di Negroponte (Chalkida), capoluogo dell’isola omonima, la greca Eubea. Dipinta sulla testata di una trave, l’opera è stata di nuovo occultata, per cui è esaminabile solo in fotografia. Si tratta di una piccola guizzante “moleca” uscente dalle onde e reggente il libro chiuso, la quale presenta muso antropomorfico con capigliatura a spazzola attorniato da grande nimbo e ali “a chele”. Figurativamente è poco più di un abbozzo trattato con poche ma sicure linee nere e caricato in scudo gotico. Ma l’importanza storica di questa minuscola larvale figuretta è molto grande perché essa va sicuramente annoverata tra gli incunaboli marcheschi essendo databile al 1261 (o poco dopo) – si noti la coincidenza cronologica con il sigillo di Ranieri Zeno e con le suddette misure di capacità – anno in cui il patriarca cattolico di Costantinopoli Pantaleone Giustinian, fuggendo dalla città riconquistata in quell’anno dai Greci, si fermò a Negroponte facendovi erigere la cattedrale cattolica. Il leone veneziano quale simbolo politico potrebbe essere dunque una concausa della caduta dell’Impero Latino d’Oriente. Il discorso si fa ora maturo per affrontare l’argomento del leone-principe, quello stilita sul Molo. Lasciamo da parte le trascorse ipotesi sull’origine e la datazione del problematico quanto affascinante bronzo. Lo si è detto veneziano (dal Duecento al Cinquecento), greco-arcaico, etrusco, fenicio, egizio, ellenistico, bizantino, anatolico-siriano, assiro, sassanide, indiano, cinese! Nella sua meticolosa seppur libresca monografia del 1990, pubblicata dopo che la statua fu per l’ultima volta provvisoriamente tolta dalla colonna constatandone le buone condizioni conservative, Anna Maria Scarfì la datava tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C., ritenendola un leone-grifo eseguito da un artista greco orientaleggiante probabilmente quale parte di un simulacro di Sandon, divinità protettrice della città di Tarso, in Cilicia (all’epoca delle crociate facente parte della Piccola Armenia) della quale sarebbe originaria. Senza entrare nel merito della suddetta equilibrata datazione del bronzo stilita, va pure detto, circa l’audace tesi di una sua supposta provenienza da Tarso e in subordine da Isso, che la Scarfì la collega ad una permanenza del doge Sebastiano Ziani nella Piccola Armenia, dimostrando così di tenere in considerazione il tradizionale innalzamento delle due colonne del Molo (una terza sarebbe sprofondata in acqua) da parte di Nicolò Baratieri tra il 1172 e il 1178, accadimento che, come la provenienza dei cosiddetti pilastri acritani nel 1291, è da confinare in ambito leggendario, pur coi nuclei di verità solitamente inerenti a tali casi. Naturalmente, accettando una tale arretrata valutazione cronologica per l’elevazione delle colonne, ne resterebbe da giustificare il lunghissimo lasso temporale decorrente fino alla prima documentazione del bronzo, che è del 14 maggio 1293. Una deliberazione del Maggior Consiglio di quell’anno così infatti recita: «Item, quod Leo, qui est supra columpnam, debeat aptari de denarijs qui accipientur de gratia vini et lignaminis». Pare più corretto interpretare il termine «aptari» come «essere restaurato» in quanto l’altro possibile significato di «essere adattato», nel senso di trasformazione della statua in emblema veneziano (mediante la necessaria aggiunta del libro atterrato e forse delle ali) sarebbe più logico riferirlo in concomitanza con la sua collocazione sull’altissima colonna. D’altro canto, pervenendo ad un compromesso tra le due interpretazioni, il termine «aptari» potrebbe essere riferito al solo ammodernamento delle ali che vennero rifatte “ritagliate”, cioè coi filari di penne ben distinte. Il problema è destinato a rimanere aperto anche perché, durante le sofisticate analisi cui fu sottoposto il leone negli anni 1985- 90, quando fu rimosso a causa del restauro della colonna, ci si dimenticò completamente di esaminare l’aperto libro bronzeo, lasciato solo soletto attaccato al capitello e trascurato pure alla fine dell’Ottocento anche dal perspicace Giacomo Boni che salì in cima alla colonna. La Scarfì non esclude che il leone del Molo sia pervenuto a Venezia molto prima della colonna e che, a somiglianza del bronzeo leone stilita di Braunschweig, del 1166, sia stato per lungo tempo provvisoriamente posto su di un basso basamento prima di essere collocato sulla colonna, il cui capitello in nembro rosato (varietà di calcare veronese) per motivi stilistici è a sua volta molto più agevole datare alla seconda metà del Duecento che non un secolo prima. D’altro canto tale ipotesi rende molto più difficile spiegare il silenzio durato fino al 1293 su questo bronzo che appare tanto più gigantesco – le misure sono di circa due metri per quattro e mezzo – quanto più lo si veda da vicino. In realtà la prima testimonianza delle colonne è prossima cronologicamente a quella del leone, in quanto di soli dieci anni anteriore è la loro prima menzione in una delibera del Maggior Consiglio del 20 maggio 1283 concernente l’avanzamento del Molo oltre le medesime colonne, che prima erano a filo dell’acqua: «Item, quod rippa, que est supra canale ante ducale pallatium, pos sit ellevari incipiendo a columnis et conducendo sicut videbitur». Poiché tra il 1267 e il 1268 il cronista Martino da Canal descrivendo minuziosamente l’area marciana, non spreca una sola parola sulle due colonne, tale omissione acquista un suo peso come argomento ex silentio. Inoltre i caratteri stilistici delle romaniche sculture dei mestieri sulle loro basi difficilmente possono oltrepassare gli anni Ottanta per cui il Tigler, in un suo brillante articolo (1999-2000) sulle colonne di Marco e Todaro, desume che siano state innalzate poco dopo l’estate del 1268, data «oltre la quale non è il caso di spingersi molto». La datazione alla fine degli anni Settanta per la collocazione delle colonne, di cui quella leonina è in granito della Troade (quindi in relativa prossimità di Costantinopoli), presuppone che il leone fosse già da qualche tempo a Venezia e, senza scendere in Cilicia, l’ipotesi più verosimile sembra quella che esso fosse già stato condotto nella metropoli imperiale prima del 1261, anno della sua riconquista, improvvisa e inaspettata, da parte dei Greci. E probabilmente non è casuale che tale data coincida con l’inizio del nuovo tipario delle bolle ducali dove è presente la notata microscopica immagine marciana, tipario che, lo si è visto, è praticamente coevo alle leonine misure di capacità conservate nell’Archivio di Venezia. Col che si spera di aver dimostrato l’asserto di cui sopra, per cui il leone alato come simbolo politico dello Stato Veneto risalirebbe agli inizi del settimo decennio del Duecento e comunque non prima della metà del detto secolo, conclusione cui era arrivato per altre vie anche il Pertusi (1965). La differenziazione tra i leoni eminentemente politici e quelli propriamente religiosi – le due categorie sono in genere ben distinguibili – viene attuata spesso con l’espediente di inserire sul libro dei secondi una scritta di inequivocabile carattere religioso come è dato constatare in un trecentesco affresco della cappella dei Lucchesi, unica superstite della veneziana distrutta fabbrica mendicante dei Servi, dove nell’abside esiste una lapidea “moleca” prettamente politica. Ma in tanti altri esemplari, se il libro aperto è anepigrafo (sedile duecentesco degli anni Sessanta all’esterno del Tesoro a S. Marco) o chiuso (portale di Andriolo de’ Santi al S. Lorenzo di Vicenza), l’unico criterio di distinzione resta per sempre quello semantico. Diverso ma non troppo è il caso del leone andante che, se si presenta cogli altri zodia pure a figura intera, si differenzia in genere anche formalmente dal modulo politico, o nella struttura o nei particolari o in entrambi (v. affreschi della cappella Ricchieri nel Duomo di Pordenone, dedicato a San Marco, dove il libro del leone è incredibilmente piccolo). Va notato infine che tra le circa 1300 patere e formelle zoomorfe veneto-bizantine conosciute, eseguite a Venezia tra l’XI e il XIII secolo, il tema del leone marciano è completamente assente e solo in una patera (cortile di Ca’ Magno a S. Luca) appare un leone alato che però niente ha in comune col simbolo religioso o politico veneziano.
INDICE
«San Marco in forma de lion»
Genesi 11
Tipologie e sembianze 19
Il leone andante 20
Il leone “in moleca” 37
Tipologie minori 47
Fisiognomica marchesca 51
Le scritte atipiche sui libri 55
Le colonne marciane 63
I leoni di san marco nei territori di belluno, feltre e cadore. comparsa, evoluzione e distruzione
di Marco Perale
L’arrivo dei leoni 75
Belluno 75
Feltre 78
Cadore 82
Le distruzioni cambraiche e napoleoniche 87
Belluno 87
Feltre 90
Cadore 92
I leoni dolomitici
Il simbolo della Repubblica Veneta nelle tre «provincie» del Bellunese, Feltrino e Cadore 97
I leoni del Bellunese 97
I leoni del Feltrino 109
I leoni del Cadore 118
Il leone dopo la sua Repubblica 123
Catalogo delle sculture, dei dipinti e delle bandiere Bellunese 127
Feltrino 161
Cadore 179
Bandiere 191
Opere moderne (post 1797) 197
Bibliografia 211
Indice dei nomi 225
Indice dei luoghi 233
Referenze fotografiche 243